L'insolita Torta di mele



Natale è ormai passato. Sono stati giorni frenetici per tutti noi, giorni passati di corsa per gli ultimi regali, per il pranzo e per la cena come se non ci fosse un domani...
Ma poi, dopo, inizia un periodo strano. Almeno per me. Giorni in cui, ancora in attesa di cene e pranzi (sempre troppo sostanziosi) sono come una lumaca, faccio poche cose, possibilmente sempre di meno, e sempre più lentamente. Quasi una legge di compensazione insomma: sopravvivo alle frenesie dei giorni scorsi arrivando a un limite oltre il quale anche le cose banali, di tutti i giorni, diventano un peso. Capita anche a voi? A me succede spesso. O meglio, mi succede sempre così -non solo a Natale ahimè-. Riesco a posticipare, procrastinare, posporre, rimandando all'inverosimile ogni cosa da fare. Fino al punto in cui tutto si fa urgente. Quando è Natale, faccio diventare urgente pensare ai regali e indispensabile organizzare il pranzo di famiglia. Ma anche quando non è Natale, riesco a far diventare urgenti cose come le lavatrici e stirare, per esempio. Oppure fare la spesa. E' solo quando arrivo a questo punto, ovvero quel momento preciso in cui non ho più altro da fare che obbligarmi all'azione, allora "faccio". E com'è che "faccio"? Con frenesia, di fretta, di corsa e sempre nello stesso modo: come se non ci fosse un domani. Ecco.
Una modalità quasi bipolare, la mia, di vivere il quotidiano: non mi so organizzare con anticipo e anche quando ho del tempo "calmo" finisco per sciuparlo nei modi più disparati, senza concentrare i miei obiettivi per piccoli step.

Anche queste semplici e naturalissime meline selvatiche, dono del bosco della mia amica, sono state in attesa della mia migliore ispirazione, diciamo anche due mesi. Infatti poverelle, iniziavano ad avere qualche piccola ruga (sic!).
E' proprio in questi giorni di "lumachitudine" estrema, che mi sono obbligata a far loro l'onore che meritano, con la giusta destinazione. Complice forse anche la voglia di qualcosa di leggero e alternativo a panettoni pandori e compagnia bella, ho scelto di fare una tortina di mele un po' insolita. Dico insolita perché, insieme alla necessità di valorizzare le meline, avevo anche da alleggerire la dispensa dalle farine più disparate. Chiaramente, se non disponete di farine differenti, andrà benissimo anche una buona 00, o una multicereali già pronta e comodamente reperibile sugli scaffali del supermercato.
Per questa mia ricetta ho scelto di usare anche la farina di soia, trovata al supermercato alcune settimane fa e già usata con grande soddisfazione per preparazioni salate, e la farina di sorgo, reperibile nei negozi biologici e davvero buonissima per le basi di frolla. Le altre farine sono abbastanza "normali", almeno per me. Un consiglio quando si creano mix di farine "altre" è quello di mantenere una dose di farina 00 a cui accostare un 25% per ogni tipo di farine diverse sia un buon modo di garantire alla torta una sorta di comfort, perché resti sempre una torta godibile insieme a una tazza di buon tè. 


dose per una tortiera da 24 cm
250 g farine miste*
(ma se siete tradizionalisti, usate pure la farina 00)
200 g zucchero di canna chiaro
120 g olio di mais
-sceglietelo di buona qualità, magari pressato a freddo-
140 ml. latte (qui, latte di riso)
2 uova grandi
2 mele medio-piccole
il succo di mezzo limone
1 bustina di lievito per dolci

Preparate il forno caldo, a 180° e la tortiera già imburrata ed infarinata.
Preparate la farina; questo è il mio "elenco" di farine per questo impasto:
80 g farina di grano saraceno
80 g farina multicereali
40 g farina di soia
40 g farina di sorgo
Se, come me, amate i mix di farine, potrete prepararne uno usando le farine della vostra dispensa.
Setacciate le farine insieme al lievito per dolci. In una grande ciotola, con le fruste elettriche sbattete le uova con lo zucchero. Con le fruste in movimento, aggiungete le farine alternandole all'olio, e poi al latte, fino ad ottenere un composto liscio e dalla consistenza cremosa.
Versate il composto e disponetevi le mele, che avrete prima ben pulite ed asciugate, private di torsolo e picciolo, quindi affettate abbastanza sottilmente.
Mettete in forno, a cuocere in forno modalità statica, per circa 35 min. verificando con uno stuzzicadenti la cottura anche all'interno.
Lasciate raffreddare fuori dal forno, prima di sformare la torta.

Torta all'acqua... Leggerissima


Esistono concetti che a volte sembrano l'espressione di un paradosso. Come in questo caso: è possibile definire una torta "leggerissima"? Che già per il solo fatto di essere un dolce, è difficile poterla considerare leggera... E poi, diciamocelo chiaro, in pieno mood natalizio, parlare di un dolce leggerissimo, penso sia quasi una perversione!
Facciamoci pure una risata per ora, tanto lo so che questa Torta leggerissima all'acqua inizieremo a filarcela soltanto dopo la Befana. Con buona pace delle nostre bilance.
Però ve lo garantisco, se la proverete, non troverete nessun termine più adatto per definirla.
La ricetta viene da un ricettario Bimby, quindi partiamo col piede giusto, perché le ricette messe a punto per il Bimby sono sempre perfette: non esiste mai, mai, mai la possibilità di sbagliare, nemmeno per coloro che in cucina sono poco avvezzi, anche le schiappe!
E non crediate che per il solo fatto di non avere il magico attrezzo, siate destinati a non poterla assaggiare. In realtà qui basta solo avere delle fruste elettriche e seguire per filo e per segno le istruzioni: il risultato sarà ugualmente eccellente.

Noi, questa torta fantastica la gustiamo con una tazza di ottimo thè ed è perfetta. Ma penso che potrebbe benissimo essere usata come base per torte farcite e decorate: che si usino creme pasticcere, curd, pasta di zucchero oppure della semplice panna, la torta leggerissima si farà apprezzare, perché non contiene burro. Forse è proprio questo a renderla apprezzabile quando le decorazioni aggiunte sono molto "sostanziose". Nelle ricette tradizionali per le torte farcite e decorate si usa il pan di spagna, che in effetti non contiene burro, né olio. Io però quando lo preparo in casa, quasi mai riesco a raggiungere quella particolare ariosità dell'impasto, che si traduce poi in una torta soffice e leggera. Se anche voi siete parte di quella metà del mondo che col pan di spagna casalingo non ci arriva... questa torta fa per voi.




Torta Leggerissima
all'acqua
per uno stampo di 24 - 26 cm

250 g farina 00
230 g zucchero fine
130 g acqua
120 olio di mais
(sceglietelo di ottima qualità)
3 uova medie intere
1 bustina di lievito per dolci

Preparate la farina setacciata con il lievito, e l'olio già pesato, in un bicchiere. In un barattolo, emulsionate molto bene l'acqua con l'olio.
In una ciotola abbastanza ampia, montate le uova intere con lo zucchero, con le fruste elettriche. Partite piano e poi, nel giro di un minuto arrivate  a velocità media. Montate per 5 minuti complessivamente. Questo tempo è tassativo e serve proprio per inglobare aria ed ottenere una massa soffice e spumosa. Poi, con le fruste in movimento, iniziate ad aggiungere la farina alternandola all'emulsione di olio ed acqua, fino ad incorporare bene il tutto.
Preparate intanto il forno caldo, a 180°. Ungete ed infarinate la tortiera: e userete la misura 24 cm. otterrete una torta più alta rispetto al diam. 26 cm.
Infornate la torta, in forno statico per 40 min. Sorvegliate però attentamente la cottura, perché ogni forno è un mondo a sé. Prima di sfornare, vale sempre la prova dello stecchino.
Lasciatela intiepidire prima di sformarla.
Un consiglio: data la incredibile sofficità di questo dolce, secondo me è indicata la tortiera ad anello apribile, che permette di sformare le torte senza bisogno di capovolgerle sul piatto.



Las Tapas dè Berghèm...



Sua cugina spagnola è tornata a Bergamo e Il Giopì, che a malapena si ricordava di quello zio che anni fa era partito per la Spagna a lavorare, manco sapeva di averla, una cugina "spagnola"! Stebana, si chiama... o forse Estefana, o no, gli sembra Estebana. Mah!
In realtà quello che più lo preoccupa, non è ricordarsi il nome giusto, no. Piuttosto è che bisogna andare a trovarla, questa cugina. E lui, a Bergamo, non è mai sceso! Mai, 'ché tanto nelle sue montagne, si sta così bene!
Pensava perfino che non sarebbe mai andato a Bergamo in vita sua invece adesso gli tocca; e così, il Giopì si appresta a prendere la littorina per andare in città.
"Quat à costèl ol biglièt per Berghèm?" chiede, baldanzoso alla stazione di Clusone.
"Méla franc"...
"Cos'è?? Mèla franc? no, no, l'è car, l'è car!!! Piotòst a'ndo a pè!" [Quanto costa il biglietto per Bergamo? Mille lire... Come?? Mille lire? no, no è carissimo, piuttosto vado a piedi!]
E così dicendo si avvia a piedi verso valle. Strada facendo incontra un mercato e, dopo aver riflettuto un po', decide che sarebbe stato un bel pensiero, portare alla cugina qualche pietanza tipica della valle... Un po' della farina di mais di Rovetta, e un bel pezzo di formaggella della Valseriana.
Giunto a Ponte Nossa, ripassa in stazione: "Quat à costèl ol biglièt per Berghèm?". "Ottsento franc"... "Bestia se l'è car a mò! A 'ndo zo a mò 'npo, dai...!" [Quanto costa il biglietto per Bergamo? Ottocento lire... Accidenti quant'è caro ancora! Scendo a piedi ancora un po',dai!]
Giunto a Vertova, in un gran viavai tra la strada principale e la piazza della Chiesa, un negoziante espone la propria merce ordinatamente sul un bel banco, proprio fuori dalla bottega, sulla strada: ci sono anche i biligòcc! Sono quelli dell'anno scorso, perché per quest'anno si dovrà aspettare febbraio, ma si conservano benissimo e questi sono ancora molto belli... E vadano pure loro per la cugina spagnola.
Intanto arriva a Gazzaniga, ormai a metà strada, e la stanchezza inizia a farsi sentire. Passa per la stazione: "Quat à costèl ol biglièt per Berghèm?". "Sìcsento franc" [cinquecento lire]
Il Giopì ci pensa un momento, cinquecento lire non sono troppe, ma ha già fatto qualche spesa durante il viaggio, così decide di proseguire a piedi ancora un po'.
E arriva a Nembro: il mercato della verdura, qui, ha dei colori bellissimi: ci sono le zucche, le cipolle, la verza... l'immancabile verza. E poi anche i funghi! Ne trova di varie qualità, ma tra tutti sceglie i pioppini, sono così carini. Al Giopì, quei funghetti fanno tanta tenerezza: gli ricordano i pulcini che stanno vicini-vicini quando fa freddo. Pensa che sono una piccola preziosità, da portare alla cugina Estebana. Con qualche bella foglia di verza, anche i pioppini entrano in saccoccia.
Giunto a Torre Boldone, ormai prossimo a Bergamo, pensa che tra tutte le buone mercanzie che porterà alla cugina, ci vorrebbe qualche bella salsiccia, perché con le verze, la salsiccia è la sua morte... Cerca dunque il macellaio che, guardacaso, è proprio vicino alla stazione... Curioso s'avvicina alla biglietteria: ""Quat à costèl ol biglièt per Berghèm?" "Sento franc". "sento franc??! Isse pocc? Men daghe dess!". [Quanto costa il biglietto per Bergamo? Cento lire. Cento lire??! Così poco?? Me ne dia dieci!]
Così, felice di tutti (ma proprio tutti!!) gli affari fatti quel giorno, il Giopì arriva finalmente in Borgo Santa Caterina, con la littorina, dalla mitica cugina spagnola. Le porta orgoglioso tutte le specialità che la sua Valle può offrire, che non sono lussuose, ma preziose, di quella preziosità che prende valore grazie alla mano dell'uomo.
E allora la cugina Estebana, per rendere omaggio a tanta generosità, usando gli ingredienti avuti in dono dal Giopì, decide di cucinare qualcosa che di certo lui non può conoscere, perché sono Las Tapàs! Non un solo piatto, ma ben tre preparazioni: le Tapa, piccole monoporzioni di un piatto che nasce per essere una portata vera e propria; los Pinchos, bocconcini che si gustano rigorosamente infilzati con uno stecchino; i Montadito, fette di pane con assaggi di pietanze e salse molto saporite.

Per l'MTC nr. 60, la sfida di ottobre della mia amica Mai, spagnola di Catalunya, ecco una (spiritosa) rilettura di una barzelletta conosciutissima in bergamasca, che rende bene l'animo di noi "locali", tanto generosi, ma talvolta così ingenui!
Ed ecco quindi le mie ricette, che a riguardarle nell'insieme potrebbero essere servite in uno dei nostri rifugi, in montagna, magari in una giornata uggiosissima come era quella di ieri -quella in cui le ho preparate-



La Tapa
Sòpa de Biligòcc coi fons piupì
Zuppa di castagne con funghi pioppini
dosi per 8 bicchierini
400 g biligòcc* secchi
1 bicchiere di vino rosso da tavola
due tazze abbondanti di brodo vegetale
200 g funghi pioppini freschi
1/2 cipollina bianca
1 rametto di rosmarino
olio e sale


*I Biligòcc sono castagne, che dopo la raccolta vengono poste ad affumicare, in appositi essiccatoi (veri e propri edifici posti ai margini del paese) per circa 40 giorni, quindi bollite per qualche ora e lasciati nuovamente asciugare. Vengono venduti in "collane", ovvero infilati lungo uno spago come fossero perle di una collana, appunto. Per essere consumati, vanno lasciati a bagno una notte e bolliti per circa due ore. Il loro gusto è molto aromatico e leggermente amarognolo, ma per chi ama le castagne è una vera particolarità.

Mettete a bagno i biligòcc per una notte, quindi cambiate l'acqua d'ammollo e metteteli a cuocere, partendo da acqua fredda a cui avrete aggiunto il bicchiere di vino rosso, per circa due ore. Lasciateli intiepidire, quindi procedete a spellarli. Raccogliete la polpa e passatela al minipimer con del brodo vegetale, regolando la quantità per ottenere una crema vellutata, che regolerete di sale.
Pulite i pioppini dalla terra, sciacquateli velocemente ed asciugateli, quindi soffriggeteli insieme ad un trito di cipolla, in una pentola antiaderente con poco olio e del rosmarino.
Preparate i bicchierini con la crema di castagne sul fondo e una cucchiaiata di funghetti, appena spadellati. Da gustare caldo!

Il Pinchos
Pulenta taràgna
dosi per pinchos in abbondanza
100 g Farina di Mais Rostrato di Rovetta**
300 ml acqua
sale
150 + 50 g Formaggella Valseriana
100 g panna fresca


**Il mais è un prodotto divenuto ormai talmente tipico della provincia bergamasca da essere ormai un'icona. A dispetto del territorio aspro e avaro di coltivazioni, non mancano le eccellenze: sulla piana di Rovetta troviamo questa rara preziosità. Un mais dal colore rosso ramato, caratterizzato da file di chicchi rostrati, da cui si ottiene una farina dalla grana particolarmente grossa, e che dà origine ad una polenta molto rustica, ottima se mantecata con un po' di formaggio aggiunto a fine cottura. Una sorta di polenta taragna. Lo abbiniamo a della Formagella della Valseriana, formaggio grasso a pasta semicotta, tutelato da disciplinare.

Preparate la polenta, nella maniera classica: portate a bollore acqua con un cucchiaino di sale grosso. Aggiungete la farina, tenete mosso con una frusta per evitare la formazione di grumi. Quindi, dopo alcuni minuti, cambiate la frusta con il cucchiaio di legno e continuate la cottura rimestando la polenta, per circa 40 minuti. A circa tre quarti dal termine, aggiungete 50 g di Formagella, ridotta a dadini e fate in modo che si sciolga, prima di togliere la polenta dal fuoco. Rovesciatela in una pirofila e livellatela con un cucchiaio. Quando sarà raffreddata, ricavate delle palline (ma anche dei cubotti andranno bene), infilzandoli con uno stuzzicadenti. In un pentolino, lasciate in infusione la panna col formaggio tagliato a dadolata, per circa mezz'ora. Quindi, al momento di servire, sciogliete la fonduta, mentre gratinate le palline al grill del microonde. Servite in piccoli bicchierini, con un fondo di fonduta e le palline di formaggio infilzate.
NB: non avevo dei bicchierini trasparenti in cui "montare" questo piatto, l'ho messo usando quello che avevo.

Il Montadito
Erza é codeghì
Verza e cotechini
dosi per 8 montaditos
4 panini integrali alle noci
200 g verza tenera
1 piccola cipolla
1/2 mela
olio
2 cotechini
per la riduzione di aceto al miele
100 g aceto di mele
2 cucchiaini colmi di miele chiaro


Verza e cotechino è un piatto di chiara origine lombarda. E' la versione pret-a-porter della più complessa Cassoeula: in ogni casa può essere preparata anche con questa "veste veloce", pronta in circa mezz'ora senza rinunciare al gusto davvero tipico che caratterizza il piatto originale. Qui, la accompagno con una riduzione di aceto e miele, una sorta di salsa la cui dolcezza ed asprezza, esalta in maniera golosissima questo insieme di sapori un po' forti.

Preparate un trito con la cipolla e mondate la mela; soffrigete il tutto in poco olio. Saltate insieme, poi, anche la verza mondata e ridotta a striscioline. Aggiungete poca acqua e regolate di sale, cuocendo fino a rendere il tutto piuttosto tenero. Mettete tutto nel bicchiere del minipimer e riducete a crema, magari agevolando l'operazione con l'aggiunta di paio di cucchiai d'acqua.
Scaldate una pentola antiaderente e fate cuocere, così a secco, la salsiccia, tagliata a fettine. Lasciatela andare per alcuni minuti, giusto il tempo di sgrassare la carne e far colorire i pezzetti, in modo che la caramellizzazione degli zuccheri che contiene possano donare quel gusto inconfondibile.
Tagliate i panini a metà, scaldateli e passateli con la crema di verza. Aggiungete i pezzetti di cotechino ben tostati e caldissimi. Infine, qualche goccia di succulenta riduzione di aceto al miele.

Per la riduzione di aceto al miele
In un pentolino piccolo con il fondo spesso, ho scaldato l'aceto ed il miele, lasciando andare a fuoco bassissimo fino che il tutto di è ridotto ad una consistenza simile  quella dell'olio. Prima di togliere dal fuoco, vi ho aggiunto e sciolto due cucchiai di aceto. Senza attendere che sfumasse ho tolto il tutto dal fuoco ed ho trasferito in un vasetto con coperchio, per poter conservare questa glassa in frigo. Raffreddandosi, la sua consistenza diverrà simile a quella del caramello. Anche il suo gusto è molto dolce, ma l'aggiunta di quel tocco d'aceto all'ultimo rafforzerà il sentore aspro, che nella cassoeula darà il meglio di sé.

Biscotti di farina di mais fioretto e fiori di lavanda

 

Questa è la settimana del mais per il Calendario del Cibo italiano di AIFB, e ne sono ambasciatrice.
Nello scrivere l'articolo, mi ponevo costantemente una domanda: ma cosa sarebbe stato di noi bergamaschi senza l'arrivo del mais?
Noi, che nei territori pianeggianti così come in quelli aspri delle nostre vallate, abbiamo del mais fatto il re delle coltivazioni e, poi, anche delle nostre tavole quotidiane, come saremmo sopravvissuti se Colombo non avesse portato nel vecchio continente un cereale così prezioso?

In realtà, non è stato tutto così "rose e fiori", per i nostri trisavoli. Le vicende storiche testimoniano molto bene le difficoltà vissute dal popolo contadino a partire dal '700, nell'evoluzione delle colture che si trasformavano integrando il nuovo cereale. Quelle del mais iniziarono sostanzialmente dagli orti e non raggiunsero i campi per molto tempo. L'orto era una parte di coltivazione del podere non soggetta a canone, e separata dal resto dei terreni su cui gravavano le spettanze ai padroni. La coltura del mais era molto redditizia, e anche perché non gravata dai patti agrari, sostituì velocemente le colture minori a base di miglio, panìco e meliga. Lentamente però, le colture di mais si estesero sempre di più, condannando i contadini ad un'alimentazione che quotidianamente era basata solo sulla polenta. La pellagra si diffuse dunque rapidamente e per secoli fu il tormento di queste popolazioni, in quanto il consumo di mais sottoforma di polenta non era stato affiancato da quello dei legumi, che con le loro proteine, avrebbero completato l'apporto proteico del mais. Questa modalità di consumo era, infatti, adottata dai nativi americani che, inoltre, trattavano i chicchi con acqua e calce, riuscendo così a privarli del rivestimento esterno; grazie a quest'operazione si rendeva  più disponibile la vitamina PP, la cui carenza provoca appunto la pellagra.



Oggi le mote varietà presenti sul territorio italiano, e la profonda conoscenza di come trattare il mais, ci regalano farine dalle diverse texture, tra cui possiamo scegliere per realizzare le nostre ricette. A me piace molto il gusto del mais nei dolci, quindi ho trasposto un po' la ricetta delle lingue di gatto, per preparare e questi bei biscottini, che, con l'ultima lavanda raccolta dal cespuglio della mia cara amica Antonella, si sono trasformati in un'ottima pausa thè.



Biscotti di mais
ai fiori di lavanda

90 g farina 00
70 g farina di mais fumetto
120 g zucchero bianco
100 g burro morbido
2 uova piccole
gocce di aroma di vaniglia
2 cucchiai di fiori di lavanda freschi*

*Quando non siamo in stagione di lavanda, è possibile prendere dei fiori secchi ad uso edibile in erboristeria: usatene meno, perché in tal caso l'olio essenziale contenuto, risulta molto concentrato

Prendete una ciotola ampia, che possa contenere tutti gli ingredienti e sbatteteli con una frusta, molto energicamente, fino ad ottenere una massa cremosa e molto morbida, ma ancora sostenuta. La consistenza dovrebbe essere tale da permettervi di farne delle cucchiaiate che non si allarghino troppo.
Preparate una teglia rivestita con un foglio di carta da forno, distribuite il composto a cucchiaiate distanziandole un poco, e date a piacere la forma rotonda oppure un po' allungata. Distribuite i fiorellini di lavanda sulla superficie: se sono freschi, anche 5 o 6 per ciascun biscotto, se sono secchi, mettetene solo due o tre.
Infornate a forno caldo, 150° ventilato, sorvegliando che i bordi non scuriscano. Togliete la placca dal forno a cottura ultimata, lasciandoli raffreddare prima di staccarli dalla carta. Sono biscottini piuttosto morbidi e si conservano molto bene in una scatola di latta per qualche giorno.



Gnocchi di patate Magenta ripieni, con formaggio di capra e glassa di lamponi


Da oggi rientro nell'MTC.
Sono passati qualcosa come quasi tre anni dall'ultima volta.
E' stato un po' come quando pensi ad un amico caro con cui non parli da tanto tempo... Mi è salita un po' di nostalgia. Lo vedevo sfilare davanti agli occhi, mese dopo mese, sfida dopo sfida sostenuto da un gruppo che si faceva sempre più ampio, e viavia sempre più compatto e con nuove amicizie. Non l'ho mai perso di vista veramente, ma un conto è incrociare un amico per strada e scambiare un frettoloso saluto, ben altro è entrare nel vivo dello scambio, nel cuore della comunicazione, obiettivo massimo che si esprime in una buona amicizia.
Ed eccomi allora a riprendere la corrispondenza d'amorosi sensi che è in definitiva "l'essere nel cuore dell'MTC".
Riprendo in punta di piedi, umilmente e senza fuochi d'artificio perché, così come è per tutti gli esercizi che la vita ci offre da svolgere, anche qui si tratta di fare un piccolo percorso di crescita e arrivare a comprendere l'obiettivo dell'insegnamento sotteso all'esercizio.

La ricetta del mese è quella degli gnocchi di patate, un piatto col quale ho un particolarissimo rapporto di amore-odio: non li ho mai amati particolarmente per via di quella consistenza così "papposa", morbida e dolciastra, ma d'altro canto sono il comford-food per eccellenza, tanto del giovedì quanto della domenica. Non li ho mai nemmeno odiati veramente, perché a un certo punto del mio percorso in cucina ho capito che avrei potuto prepararli anche con ingredienti più stuzzicanti delle sole patate. Ecco quindi che da anni non si contano più le innumerevoli varianti di gnocchi sulla tavola di casa: da quelli con la zucca, con la castagna, con il pane secco, a quelli con la barbabietola, con la ricotta, con le erbe... ma mai più di sole patate. Anzi talvolta anche proprio senza patate. E' così che sono arrivata ad amarli. Ed è così che oggi torno alla base di partenza degli gnocchi: le patate.
In risposta alla semplicità a cui ricorro quando di tratta di dare una rilettura dei fondamenti essenziali, apro il mio cassetto più amato, quello dei colori. Patate Vitelotte e patate Magenta. 


Ma non mi basta il colore, per interpretare il piatto. Voglio anche "sentirlo", quindi penso anche alla sua morbida consistenza: ripenso a quella sensazione scivolosa sul palato, che amo contrastare con qualcosa di croccante. Poi, anche alla dolcezza intrinseca della patata, che mi piace si ma anche no, e allora immagino una punta acida nell'insieme, quasi complementare più che di contrasto. Infine qualcosa di amarognolo e sapido, che serve per bilanciare la rotondità degli gnocchi.
Ci sono: Gnocchi "Magenta" (colore!) ripieni di formaggio di capra (amarognolo e molto sapido) con bucce (croccanti) e glassa di lamponi (acida).

La ricetta è "Gnocchi di patate Magenta ripieni, con formaggio di capra e glassa di lamponi", ed è per l'MTChallenge n. 59: la Sfida degli gnocchi
GRAZIE ad Annarita Rossi, del blog Il Bosco di Alici  ed alla sua ricetta degli Gnocchi di patate


Questo è il piatto preparato per la famiglia e, siccome mi pareva quasi più bello di quello "fotografato apposta", 
lo pubblico senza vergogna :-)


Per gli Gnocchi
dosi per 4 persone
700 g patate magenta
150 g farina 00 circa
1 uovo piccolo
(opzionale: qualche goccia di succo di barbabietola)

Per il ripieno
100 g ricotta di capra (oppure anche vaccina)
50 g gorgonzola di capra (o anche un gorgonzola piccante)

Per il condimento
50 g succo di barbabietola
100 g lamponi
1 cucchiaino colmo di miele (acacia o tiglio)

60 Burro
Foglioline di salvia



Spazzolate e pulite molto bene le patate, tagliatele a spicchi SENZA SBUCCIARLE, quindi cuocetele al vapore finché saranno tenere ma compatte. Mentre sono ancora caldissime, spellatele attentamente, infilzando ogni spicchio con una forchetta ed aiutandovi con un coltellino, per riuscire a togliere le bucce come fossero una sorta di pellicola. Conservate le bucce, che serviranno per il condimento.
Sulla spianatoia, passate le patate con lo schiacciapatate e procedete ad incorporare l'uovo e la farina, viavia che l'impasto prende consistenza. Se il colore vi pare un po' scialbo, aggiungete qualche goccia di succo di barbabietole. Le patate infatti, in cottura mantengono un bel colore, ma con la farina e l'uovo, l'impasto tende a schiarirsi. Il tocco della barbabietola invece riporta tutto alla tinta originaria che hanno le patate.


Formate una palla e dividetela in 5 o 6 parti; da ciascuna ricavate una sorta di grissino un po' appiattito, grosso come un pollice. Tagliatene dei pezzetti regolari e procedete con il ripieno.
Il ripieno si prepara amalgamando i due formaggi: il gorgonzola è molto compatto quindi va prima "tritato", passato qualche secondo al microonde (potenza leggera, tipo defrost) e poi integrato alla ricotta in una ciotola aiutandovi con una forchetta.
Formate gli gnocchi aiutandovi con il palmo della mano, su cui "aprirete" la pasta di patate, inserirete una nocciolina di ripieno e poi andrete a richiudere il tutto, creando una pallina, grossa circa come una piccola noce.
Disponete gli gnocchi su un vassoio infarinato. Al termine di questa operazione, gli gnocchi vanno passati in freezer, per almeno un'ora.
Preparate la glassa di lamponi: in un pentolino scaldate i lamponi. Fateli andare a fuoco lento e si sfalderanno, passateli al colino cinese per toglierne i semi, quindi rimettete sul fuoco. Aggiungete il succo di barbabietola ed il miele. A fuoco lento, fate ridurre ed addensare un poco il composto. Raffreddandosi, poi, prenderà la consistenza della glassa. Anche questa preparazione può essere fatta in anticipo di alcuni giorni, perché la glassa si conserva bene in frigo, utilizzabile pure per altre preparazioni.

Al momento di preparare il piatto, togliete gli gnocchi dal freezer e lasciateli ammorbidire solo un poco. Calateli in acqua bollente e salata, per  un paio di minuti, finché verranno in superficie.
Raccoglieteli con un mestolo forato e passateli in pentola: una pentola che avrete preparata nel frattempo con il burro fuso al punto nocciola, qualche fogliolina di salvia e le bucce di patate che avevate tenuto da parte. Le bucce, passate nel burro ben caldo, diventano croccantissime e sono molto leggere.
Servite il piatto ben caldo, con qualche goccia della glassa di lamponi che completerà il tutto meravigliosamente, con il suo tocco di acidità.

Crema di patate - di tutti i colori!


Oggi inizia, per il Calendario del Cibo italiano, la settimana della patata, e nel mio blog, vorrei poter fare onore alle patate di tutti i colori. Un po' della storia e delle origini di questo prezioso ortaggio, la leggiamo dunque grazie all'ambasciatrice della settimana, la carissima Sara del blog Qualcosa di rosso.
La patata è il tubero della pianta Solanum Tuberosum ed è arrivata in Europa solo dopo la scoperta delle Americhe, in particolare, dell'America latina e delle Ande peruviane, dove pare sia nata per mutazione spontanea. Le prime colture di tuberi risalgono a due secoli prima di Cristo nelle regioni intorno al Lago Titicaca, a 3.800 m d’altitudine tra Perù e Bolivia, là dove il terreno era reso particolarmente fertile dal guano, un concime formato dagli escrementi fossili degli uccelli marini. Da lì si diffuse in tutto l’impero degli Inca (Perù, Bolivia, Cile settentrionale, Nord-Ovest argentino, fino quasi all’Equatore). In lingua inca la patata era chiamata papa e da allora questo nome le è rimasto, con qualche variante, in quasi tutte le lingue occidentali. Nel Cinquecento i conquistadores spagnoli sbarcarono nell’America Meridionale alla ricerca dell'Eldorado, mitico paese dell’oro, trovandovi tra l’altro piante totalmente sconosciute in Europa, come cacao, fagioli, mais, pomodori, zucche, cotone, tabacco e la papa. La papa non entusiasmò gli Spagnoli, sia perché appartenente a un gruppo di piante spesso velenose – e velenosa essa stessa quando forma i germogli – sia perché, venendo da sottoterra, era considerata un prodotto strano, diabolico. Come le altre piante, tuttavia, fu portata in Spagna, passando da lì nei Paesi Bassi, in Francia, in Austria e poi nel resto d’Europa.*
Nonostante tutti i pregi che la caratterizzano, la patata non ha avuto un inizio folgorante in Europa se non a partire dalla seconda me
tà del 1700. Pare infatti che prima d'allora fosse ritenuta cibo per i poveri, adatta all'alimentazione degli animali e quindi letteralmente ignorata dagli europei.
Ci ha pensato il dottor Antoine Parmentier, che potrebbe essere eletto a pieno titolo come il primo a colonizzare l'Europa con la patata. Un aneddoto racconta infatti che Parmentier, che aveva già ben compreso -e studiato- il valore nutritivo e l'importanza della patata nell'alimentazione, si inventò un vero stratagemma per convincere di questo fatto anche il popolo contadino, il quale era molto avverso a consumarne. Fece venire delle truppe di soldati a sorvegliare notte e giorno l'appezzamento di terreno su cui stava coltivando le patate, facendo passare l'idea che si trattasse di un cibo davvero prezioso. Al punto che molti contadini si apprestarono a cercare di rubare le patate per poterle consumare.
Da lì, il successo delle patate è storia nota: a tutt'oggi si continua a fare ricerca e selezione tra le sue varietà che sono moltissime, talune anche con caratteristiche molto differenti tra loro e che le rendono, in cucina, più adatte a certe preparazioni piuttosto che ad altre.
Ci sono, tra le patate che troviamo in commercio, anche le varietà dolci, con polpa bianca o arancione, che non sono tuberi Solanum tuberosum, bensì radici tuberose di Ipomea batatas. Errore dunque classificarle nelle patate.
Tra le classiche patate, troviamo quindi le patate a pasta bianca, a pasta gialla, quelle novelle (raccolte quando sono ancora piccole e la pianta verde), quelle vecchie (raccolte quando sono più grandi e la pianta ormai ingiallita), le gialle con buccia rossa, le gialle con buccia viola... E infine, le viola e le magenta, quelle che campeggiano qui sopra. Dite, ma non le trovate meravigliose?

Diciamo subito che la ricetta proposta per quest'occasione non è (ancora) perfettamente in stagione, ma lo diventerà tra poco, quindi ho pensato di fare cosa buona e giusta ripescando dal fondo delle foto fatte in passato e non ancora pubblicare, questa bella crema di patate, che i francesi hanno voluto dedicare al grande Parmentier intitolandola "Potage Parmentier", ma che si declina molto bene anche in italiano... Semplicemente "Crema di patate".
Si, d'accordo, non ha nulla dell'eleganza che possiede il nome francese, ma lascio da parte le disquisizioni sulla lingua e pure quelle sulla provenienza originaria di questo piatto, perché la cosa che più mi diverte quando decido cosa fare per la cena, è quella di rendere la mia tavola di tutti i giorni, bella ed elegante come quella delle feste. Così, anche una semplice crema di patate, calda e confortevole nella stagione fredda, diventa subito preziosa se "vestita" in viola, oppure in rosa. Non trovate?
Mi fermo un attimo sulle patate Magenta, che ho trovato proprio solo ieri al mio supermercato più gettonato, e che subito ho provato. Sono saporitissime, davvero un altro pianeta, anche solo rispetto alle sorelle viola, le patate Vitelotte, che avevo usato per la crema viola.
L'etichetta racconta, di queste patate Magenta, che si tratta di una varietà creata per sostenere l'economia delle popolazioni andine, ma poiché si adattano bene anche ai nostri climi, vengono prodotte anche in Italia. Sono anch'esse ricche di antociani, sostanze antiossidanti presenti in grosse quantità nei cibi di colore viola.


la Crema con le patate Magenta

la Crema con le patate Vitelotte

Crema di patate
(o Potage Parmentier)
700 g patate - del colore a voi più gradito -
2 cipolle piccole
burro
sale, pepe, dado vegetale

Soffriggere a fuoco debole, le cipolle tritate. Aggiungere anche le patate, pelate e tagliate a pezzi grossolani. Coprire con acqua quanta ne basta per arrivare a filo e non di più. Io ho usato la pentola a pressione, quindi chiudo il coperchio e inizio a contare il tempo a partire dal fischio, 10 min., ma voi potete anche scegliere la cottura tradizionale, a fuoco lento. Quando le patate saranno molto tenere, aggiungete un cucchiaino colmo di dado vegetale e verificate se necessita di regolare il sale, poi passare con il frullatore ad immersione fino ad una consistenza liscia e vellutata.
L'ho gustata con delle scagliette di parmigiano, che trovo adatto per questi ingredienti, ma anche con dei crostini al rosmarino, questo piatto davvero non vi deluderà.

*Fonte: per le origini della patata:
http://www.treccani.it/enciclopedia/patata_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/





Robiola (quasi una Prescinseua) e Primosale


Diciamo subito che questo post, come molti altri scritti in tempi passati, è di quelli nati dalla mia fissa per non buttare via nulla, che poi a forza di tentativi e di piccoli ricordi ripescati e lavorati a dovere, arriva ad insegnarmi qualcosa che val la pena di condividere.
Stavolta si trattava di latte fresco intero andato a male: un litro di Latte Bio intero da agricoltura biologica, acquistato e andato subito in acidità nonostante fosse ampiamente entro la data di scadenza. Quasi certamente è stata colpa di una "catena del freddo" non del tutto efficiente, ma va da sé che il latte in questione poteva solo essere: 1° riportato al negoziante con le dovute rimostranze per sostituirlo con uno buono; 2° buttato via senza se e senza ma.
Dato il mio carattere, l'opzione 2 era quella più diretta. Ma ecco che il neurone, afflitto da voglia di vacanze però ancora iperattivo, inizia ad accendersi a piccoli spot con intuizioni confuse, dentro cui ho ricordato un piccolo librino, comprato in montagna l'altra estate, Formaggi, ricotta, burro, yoghurt, a cura di Patrizia Patelli, ed. Arsenale... Un paio di giorni di letture, a cui sommare un giorno d'attesa perché la farmacia procurasse la boccetta di caglio, ed eccomi pronta per caseificare in casa.
Sorvolo sulle varie prove, ma già quel primo "tentativo" con il latte andato a male era degno di nota, avendo potuto constatare inequivocabilmente che anche quando il latte è fortemente acido, basta pochissimo calore ed una goccia -UNA- di caglio per dar vita ad un'ottimo Primosale... [io poi l'ho aromatizzato con rucola e basilico perché quella volta lì il latte aveva un sentore leggero di "stalla", una roba un po' rustica che anche il suo formaggino manteneva ben distinguibile].
Mi fermo invece sulla semplicità assoluta, richiesta da quei pochi gesti necessari per fare il formaggio in casa. Insisto un poco anche sull'aspetto economico della cosa, perché prendendo del latte crudo fresco dai distributori che oggi si trovano in molti dei nostri paesi, che costa circa la metà del latte alta qualità che troviamo in negozio, il formaggino Primosale che se ne ottiene costa a sua volta circa la metà di quello in commercio.
Sulla freschezza e sulla bontà del risultato non mi soffermo né insisto: provate per credere!

Dopo aver fatto pratica con il Primosale, ho voluto "evolvere" ed ho cercato indicazioni per la Robiola freschissima: io puntavo ad ottenerne una versione spalmabile, che avesse quella punta di acidità per poterla usare nei piatti salati, come base per una salsa oppure occasionalmente anche in una cheese cake. E ci sono riuscita.
Ora, sia per la Robiola che per il Primosale, non si tratta di vere e proprie ricette, ma solo di molti appunti e consigli, che cercherò qui di riunire in maniera chiara ed essenziale.

Primosale di latte vaccino
Ingredienti
2 lt. latte vaccino fresco crudo
(si tratta del latte acquistato presso i distributori di latte che troviamo nei nostri paesi)
2 cc caglio liquido
(lo trovate in farmacia e si conserva in frigo)
sale



Si tratta di un formaggio fresco e leggermente compatto con finissime occhiature, dal sapore dolce, ottimo da consumare crudo con verdure croccanti in pinzimonio, oppure in torte salate e ripieni.
Preparate una pentola in acciaio ben pulita ed asciutta, trasferitevi il latte e portatelo a temperatura 37° - 38°. Aggiungete 2 cc di caglio, aiutandovi con una siringa per dosarlo al meglio. Rimestate bene con un cucchiaio in acciaio, quindi coprite con un coperchio, avvolgete la pentola con un asciugamani ampio e riponetela in luogo dove possa mantenere al meglio il suo tepore. Io la metto nel forno spento, dove il calore si mantiene.


cagliata (aromatizzata con erba cipollina) in fase di filtraggio, nelle fuscelle

Lasciate riposare il tutto per due ore e, con un lungo coltello, rompete la cagliata praticandovi dei tagli: create una sorta di "grata", con tagli perpendicolari tra loro. Lasciate riposare un quarto d'ora, nel frattempo preparate una ciotola ed un ampio colino, oppure -se ne avete tenute da parte- preparate le fuscelle di plastica dentro cui a volte si trova in commercio la ricotta. Come vedete qui, ho rivestito la fuscella con della garza sterile che vendono in farmacia e che avevo già in casa per le piccole evenienze "infortunistiche" -quindi non l'ho comprata apposta-. In alternativa potete usare della tela bianca leggera, pulitissima. L'accorgimento è valido perché trattiene meglio la cagliata.
Trasferite tutta la cagliata, raccogliendola con un mestolo forato: riempirete varie fuscelle, perché la resa per due litri di latte, una volta colato il tutto è circa di 550 di formaggio. Lasciate scolare alcune ore, tenendo rigirato il panetto che va compattandosi man mano che cede siero. Il formaggio è pronto da consumare nel giro di mezza giornata.
Se si ha cura di usare delle fuscelle con forme adatte per dimensioni, è possibile poi far stagionare questo formaggio, curandone la salatura e la movimentazione, per circa 15 gg.; si ottiene una sorta di formaggella. Il suo sapore è però molto delicato, inoltre per procedere con questo genere di stagionatura, bisogna avere ambienti con temperature ed umidità adeguate. Il mio consiglio è di consumarlo così com'è, freschissimo e nel giro di due - tre giorni al massimo, conservandolo in frigorifero  temperatura 5°.


Robiola da spalmare
Ingredienti per circa 400 g di robiola
1 lt. latte vaccino fresco di alta qualità
(pastorizzato ed omogeneizzato)
125 g yogurt naturale intero
caglio liquido
(lo trovate in farmacia e si conserva in frigo)
sale fine

cagliata per la Robiola, dopo 24 ore

Si tratta di un formaggio fresco anche stavolta, morbido e con una punta di acidità, ottimo da gustare in purezza, ma anche come base per delle creme spalmabili, dei paté, per preparare torte di formaggio, dolci e salate, per ripieni e per condimenti.

Lasciate che il latte e lo yoghurt, rimanendo fuori dal frigo, arrivino alla temperatura di circa 18°. Uniteli, in un contenitore in acciaio, ben pulito ed asciutto. Aggiungete UN cc di caglio liquido, aiutandovi eventualmente con una siringa per un dosaggio più preciso, quindi amalgamate bene con un cucchiaio d'acciaio. Coprite e lasciate riposare a temperatura ambiente per 24 ore.
Già dopo solo alcune ore, vedrete che il late si sarà rappreso, come in fotografia. Passate le 24 ore, colate il siero* e trasferite il panetto cagliato in una ciotola. Si sfalderà, ma è giusto che sia così; salatene leggermente la superficie e lasciatelo riposare così ancora per qualche ora: cederà ancora un po' di siero. Eliminatelo e poi procedete a lavorarlo un po' con un cucchiaio, per ottenere la crema.
A questo punto la nostra Robiola è pronta: avrà un gusto leggermente acidulo, una consistenza cremosissima e potrete usarla sia in purezza che per tutte le preparazioni in cui usate ad esempio la ricotta. Considerate che per fare in casa la vera ricotta servirebbero litri e litri di siero, per una resa comunque molto contenuta. Facendo in questo modo invece, otterrete un formaggio naturale, che potrà sostituire molto bene la ricotta commerciale. E a noi è piaciuto tantissimo.

Una nota: in un'occasione particolare, la signora Van Pelt :) mi ha fatto dono di una confezione di "Prescinseua", un formaggio cremoso tipico di Genova ed introvabile altrove, che io non avevo mai assaggiato. Ecco, per chi vuole fare una simil-Prescinseua, con questa riceta potrà avere un buon risultato... Lo dico senza pretese e consapevole che la Prescinseua è tutta un'altra cosa, eh!
*Il siero è un elemento prezioso, che potete anche conservare in frigorifero ed utilizzare in varie occasioni. Io ad esempio l'ho usato al posto dell'acqua nella preparazione di focacce e pani, ed anche per una torta lievitata e semplice, al posto del latte o dello yoghurt.

... di pizzoccheri, cavatelli e cavolo nero: un piatto fusion di montagna



Da oggi, e per tutta la settimana in corso, parleremo della Cucina di Montagna. Ne parlo oggi QUI, per il Calendario del Cibo Italiano insieme alla cara Vittoria del blog La cucina piccolina, che come me ama la montagna, ama cucinare in quel certo modo, che quando si frequenta la montagna, si impara ad apprezzare.
La Montagna, genericamente, ci fa pensare al clima freddo, ad ambienti rigorosi ai limiti dell'inospitale, fa inevitabilmente pensare alla fatica che richiede ogni ingrediente portato in tavola: che sia del semplice burro, o della farina o anche un bon bicchiere di vino.
Io la amo, la montagna, profondamente. Non la sento inospitale, non la sento fredda, non mi sento sola in certi spazi, ma anzi, è proprio quel senso di preziosa riflessione che vado cercando.
E quando poi si tratta di pensare al cibo, amo alla follia quel calore fatto di cibi semplici ma gustati in maniera conviviale, cibi ricchi di energia in tutti i sensi.
In Italia abbiamo montagne praticamente ovunque, non solo al Nord: abbiamo quindi una Cucina di montagna anche al Sud, e perfino nelle isole.
In ciascuna delle nostre zone montane, le coltivazioni hanno fatto tesoro dei territori disponibili, dei microclimi tipici delle proprie latitudini e, soprattutto, degli usi presenti nelle zone pianeggianti ad esse adiacenti.
Ho voluto pensare a questo piatto proprio cercando di "fondere", quasi come si fa nella cucina Fusion, una serie di aspetti importanti ciascuno per il proprio territorio: i Pizzoccheri per la Valtellina, amata ed importante valle della provincia di Sondrio dove si coltiva il grano saraceno; il cavolo nero per la Toscana, la pasta nel formato del cavatelli, molto diffusa nel Sud.
Ecco qui i Pizzoccheri con Cavatelli di grano saraceno e cavolo nero


Pizzoccheri
con cavatelli di grano saraceno e cavolo nero

per i cavatelli di grano saraceno
300 g farina di grano saraceno
80 g farina 00
acqua

per il condimento
200 g patate
170 g cavolo nero
150 g formaggio tipo Casera
100 g burro
1 spicchio d'aglio non sbucciato
qualche foglia di salvia
sale, pepe, a piacere

Setacciate le farine dentro un'ampia ciotola, aggiungete acqua poco per volta e con la punta delle dita iniziate a lavorare l'impasto, fino ad ottenere una consistenza molto compatta e che mantenga una certa elasticità per poter essere stesa col mattarello. Avvolgete l'impasto in una pellicola e lasciatelo riposare in frigo per circa mezz'ora, quindi iniziate la lavorazione per realizzare i cavatelli: staccate dei piccoli pezzetti di impasto, realizzate una sorta di grissino, dello spessore di un dito mignolo. Con una spatola, tagliatene dei pezzettini regolari, grossi un piccolo chicco d'uva.
QUI raccontavo come fare i cavatelli in casa: riprendo la fotografia di allora, che in una piccola serie di passaggi potrà aiutare più di tante parole.




I cavatelli di grano saraceno potranno essere preparati anche con qualche giorno d'anticipo.
Quando vorrete preparare il piatto, basterà mettere sul fuoco un'ampia pentola, con almeno tre - quattro lt. d'acqua. Mentre arriva al bollore, pelate le patate e tagliatele a cubetti di circa 1,5 cm di lato; pulite il cavolo nero e tagliatelo grossolanamente. Quando l'acqua arriva al bollore, salate, aggiungete la verdura. Quando riprende il bollore, lasciate andare cinque o sei minuti, poi aggiungete i cavatelli di grano saraceno.
In un'ampia pentola, bassa e larga, tipo un saltapasta, scioglietevi il burro e fate dorare la salvia e lo spicchio d'aglio non pelato; aggiungete il formaggio tagliato a cubetti e spegnete il fuoco.
Nel frattempo i cavatelli saranno pronti da scolare -sorvegliatene attentamente la cottura, il cui tempo dipende dal loro spessore e da quanto sono freschi (o secchi)-.

Scolateli, aggiungeteli alla pentola con il burro ed il formaggio, accendete il fuoco e saltate uno o due minuti, affinché il formaggio possa fondere.

Serviteli caldissimi!

La Sardenaira


Ecco a voi la Sardenaira, così come la si fa nelle versioni più tradizionali, e così come anch'io l'ho preparata, per dare voce alla Giornata Nazionale di oggi del Calendario del Cibo Italiano di AIFB. Giornata egregiamente accompagnata dall'ambasciatrice Fausta, la mia amica e compagna di viaggio di importanti avventure editoriali :-).
La Faustidda è ligure DOC, molto legata al territorio e alle sue tradizioni e non poteva che essere sua, l'ambascia per la Sardenaira... che non è una pizza, guai a chiamarla così, ma piuttosto una focaccia. Secondo il disciplinare del comune di Sanremo, paese che ne ha protetto la ricetta con una De.Co., denominazione di origine comunale, viene oggi preparata con un semplice impasto lievitato, a base di farina, acqua, lievito di birra, olio e sale. L'impasto che ne esce è di una morbidezza e setosità piacevolissime, che si mantengono anche in cottura; per il suo condimento, è previsto del semplice pomodoro preparato come un sugo, aglio, olive taggiasche, origano e sardine.
Le sardine sono un ingrediente immancabile sulla sardenaira, anche perché sono proprio loro a dare il nome a questa semplice e gustosissima preparazione.
Pare che le sue origini siano davvero antiche, si racconta che sia stato Andrea Doria a renderla famosa, ma di certo la versione di quel tempo prevedeva una sardenaira "in bianco"; il pomodoro infatti, sconosciuto agli europei prima dei viaggi di Colombo, arrivò a noi come pianta ornamentale e ci volle dunque molto tempo, circa 200 anni, prima di vedere il pomodoro impiegato a tavola e nelle nostre ricette. Immancabile anche una buona dose d'olio già nell'impasto, che rende la base particolarmente saporita e speciale, dato che in Liguria le produzioni olearie sono nobili e di grande pregio. Un ultimo appunto, la sardenaira va preparata e cotta in formato rigorosamente rettangolare. Anche nel taglio, va affettata con tagli rettangolari [chi conosce la mia passione per la geometria, potrà forse immaginare con quanta gioia io abbia tagliato questi rettangoli!].

Per la mia prima sardenaira ho voluto seguire fedelmente l'originale, per quanto io possa essere "fedele" ad una ricetta nel senso profondo del termine (sorrisone!!). Le poche cose che ho variato, devo dire che non hanno migliorato la grande bontà che contraddistigue questo piatto. Ho scelto di preparare un impasto usando una parte di farina integrale macinata a pietra, ho usato pochissimo lievito di birra ed ho fatto lievitare l'impasto per una notte in frigo, ho tralasciato le olive taggiasche (sparite a tradimento grazie al marito goloso) a favore dei capperi sotto sale di Pantelleria e, infine, ho usato un sale aromatizzato con fiori ed erbe, sia spontanee che aromatiche, preparato in occasione delle prime fioriture primaverili.


dose per una teglia rettangolare da forno casalingo
300 g farina 0
300 g farina 0 integrale macinata a pietra
300 g acqua tiepida
60 g olio extravergine d'oliva -spremitura a freddo-
5 g lievito di birra fresco
1 cucchiaino raso di sale fine

per il condimento
400 g filetti di pomodori bisceglie in scatola
olio, 2 foglie di basilico e 1 spicchio d'aglio
acciughe sott'olio
capperi sotto sale -dissalati e ben lavati-
sale (aromatizzato con fiori spontanei ed erbe aromatiche)

Il giorno prima si prepara l'impasto: sciolgo il lievito in acqua tiepida ed inizio ad impastare con un po' di farina; le due differenti farine le setaccio un poco insieme nella ciotola della bilancia e poi le aggiungo man mano all'acqua. Aggiungo, poi, anche l'olio e finisco di incorporare la farina ed il sale. Impasto molto bene, fino ad ottenere una "palla" liscia e setosa, che non appiccica e si stacca molto bene dal piano di lavoro. La lascio a lievitare per circa un'ora, giusto il tempo di dare inizio alla lievitazione, quindi copro con la pellicola e metto in frigo fino al giorno seguente. Tolgo dal frigo l'impasto, che sarà ormai raddoppiato, lo lascio a temperatura ambiente per circa un paio d'ore, quindi lo tolgo dalla ciotola e lo stendo su un foglio di carta forno a misura della mia teglia. Lascio riposare circa un'ora.
Una piccola operazione da fare, magari anche con un certo anticipo, con il pomodoro, è prepararlo cotto: io ho fatto come trovato indicato in molte ricette in rete, ovvero ho cotto i pelati in olio ben caldo, con aglio e 2 foglie di basilico; ho sminuzzato tutto schiacciando con la forchetta.
Mentre condisco la teglia, accendo il forno, che nel frattempo si porterà a circa 200°.
Inforno e lascio cuocere per circa 10 min. nella zona più bassa del forno, e poi altri dieci minuti nella zona più alta del forno.
Servo la sardenaira, che è ottima e buonissima anche tiepida! Quindi in queste serate molto calde è un piatto che si mangia volentieri, un po' meno piacevole cucinare col forno e 32° in casa, ma la bontà vi ripagherà dello sforzo!

Gelato alla lavanda (in cialde di frolla all'olio d'oliva)



E' il momento della fioritura della lavanda, che trovo sempre meravigliosa con sue sfumature di viola!
Il caldo è finalmente scoppiato, come si attendeva che facesse in questo giugno ormai stufo di temporali, e la voglia di gelato si fa sentire ogni sera.
Le due cose appartengono a due insiemi differenti, fiori e gelato, ma hanno un'intersezione in comune, sapete? Il concetto è matematico, ma è facilissimo: l'intersezione (ovvero l'insieme di cose con caratteristiche comuni a più insiemi differenti tra loro) si chiama Gelato alla Lavanda. Sorrisone. Facile, no?


Qualcuno, il gelato alla lavanda lo ha già lo ha pensato, non è dunque una novità. A dire il vero anche altri sfiziosissimi gelati ai fiori sono già stati pensati. Per esempio, lo scorso anno ricordo di aver trovato, nel banco di una gelateria aperta da poco, i gusti alla violetta e alla rosa. Ovviamente non me li sono lasciati sfuggire, perché trovavo così poetico poter gustare un dessert con due "profumi" tanto eterei e romantici. Forse un po' demodé... le rose e le violette in effetti mi rimandano all'Inghilterra dell'ottocento e in un attimo mi trovo dentro certe atmosfere cinematografiche alla James Ivory: qualcosa di così lontano e differente da me, che sono così proiettata al futuro e all'essenzialità delle cose.
Però, declinare i fiori in cucina rimane per me una delle cose più intriganti in assoluto. Una roba che puntualmente, in queste settimane in cui le fioriture profumano l'aria, sia di giorno che di sera, mi imbriglia nel desiderio profondo di catturare queste essenze e, in qualche modo, goderne anche a tavola.
Sapendo che il miglior veicolo per gli oli essenziali e i profumi in natura sono proprio i grassi, e ricordando un piccolo esperimento di qualche anno fa per fare del burro dalla panna fresca aromatizzata, eccomi a ripetere il tentativo in versione dolce.
La ricetta, poi l'ho elaborata prendendola da una base semplicissima, bianca, che è ormai diventata il mio cavallo di battaglia per il gelato fatto in casa.
Per l'occasione di pubblicare una ricetta carina e presentata in maniera insolita, ho realizzato una frolla all'olio: più leggera e più croccante, ai limiti del rustico e molto adatta secondo me a contenere, e valorizzare, la cremosità di questo buon gelato bianco.
Infine, dalle prime amarene degli alberi di mio papà, ho preparato uno sciroppo denso, dolce e pieno di colore, che arriva a completare con le sue gocce questo goloso ed elegantissimo dessert.
Le amarene non sono indispensabili, perché volendo ottenere dello sciroppo alla frutta, potrete usare le fragole, oppure qualche lampone o anche dei mirtilli. Sentitevi liberi di scegliere anche in funzione di quello che avete a disposizione in base alla stagione. Il gelato alla lavanda lo potrete fare anche in inverno!
I fiori di lavanda infatti sono disponibili anche secchi, in erboristeria, per uso alimentare quindi potrete preparare questo dessert anche in altre stagioni dell'anno. Ne rimarrete entusiasti.



Gelato alla lavanda
(dose per la capacità della mia gelatiera: 750 g.)
con questa dose potrete servire una decina di dessert come quello in foto

250 g. panna fresca
300 g. yogurt greco
200 g. zucchero fine

1 manciata abbondante di lavanda fresca:
(fiori, gambi e anche qualche fogliolina)


Frolla all'olio
(dose per una ventina di ciotoline)
300 g farina grano tenero
100 g zucchero
90 g olio extravergine
1 uovo da 60 g
2 cucchiai acqua fredda
1 pizzico di bicarbonato

Io preparo la frolla aiutandomi con il mixer, il glorioso e vecchio bimby, ma voi usate pure il vostro robot di fiducia: inserisco tutti gli ingredienti e faccio andare (inizialmente a colpi brevi, poi un po' più prolungati) fino ad ottenere una massa di briciole. Rovescio tutto sul piano di lavoro, su un foglio di carta forno e con le mani, riunisco velocemente, dando la forma di una palla. Avvolgo nella stessa carta forno e metto in frigo almeno mezz'ora a rassodare. Quindi, passato questo tempo, tolgo il panetto e stendo, direttamente sulla carta forno, un disco di pasta spesso circa 5 mm. Preparo imburrate ed infarinate le ciotole che andranno in forno e, delicatamente inserisco in ciascuna un disco di pasta frolla, che ritaglio con un bicchiere un po' più grande del diametro delle ciotole. Con le dita premo e faccio aderire al meglio la frolla. Cuocio in forno già a 180° per circa 18 min. sorvegliando quando la pasta inizia a scurirsi appena sui bordi delle ciotole. Tolgo e lascio raffreddare, quindi, con l'aiuto di un coltellino sottilissimo, sformo le ciotole di pasta frolla e le ripongo fino all'uso. Se le conservate in una scatola di latta, potranno essere preparate anche con qualche giorno d'anticipo. Anzi, potreste farne un bel po' e consumarle con calma, perché in realtà sono dei veri e propri biscotti, a cui viene semplicemente data la sagoma concava.

Per il Gelato alla lavanda:
La sera prima di preparare il gelato, preparo la panna aromatizzata: la metto in un pentolino insieme con i fiori di lavanda, gambi e anche qualche stelo. Scaldo fino a circa 50, cioè quando per le nostre dita risutla troppo caldo. Allora toglo dal fuoco, metto tutto in un'ampia ciotola, copro con pellicola e ripongo in frigo fino al giorno dopo.
Solitamente tengo da parte una cucchiaiata di fiori secchi, da aggiungere successivamente dentro il gelato o come decorazione, perché dopo la fase di aromatizzazione, la panna va filtrata e quello che resta nel colino va spremuto molto bene, per estrarre al meglio l'olio essenziale profumato.
Sciolgo lo zucchero e lo yogurt greco, in una ciotola, quindi ripongo in frigo a raffreddare.
Al momento di fare il gelato, inserisco entrambi i composti nel contenitore della gelatiera, ben freddo e faccio andare per il tempo richiesto: circa 25 min. Quindi estratto il gelato e, se non è ancora il momento di servire il dessert, lo metto in una ciotola e lo lascio aspettare in freezer.

Per lo sciroppo di frutta:
200 g. amarene snocciolate
200 g. zucchero fine

Metto tutto in un pentolino dal fondo spesso e, sul fuoco medio, faccio sciogliere fino a che la frutta tenda a sfaldarsi, circa 10-15 minuti. Tolgo dal fuoco e filtro lo sciroppo, raccogliendolo in un barattolo di vetro con coperchio. Si conserva bene in frigo, anche per più giorni. La polpa di frutta che vi rimane, è in realtà molto simile ad una marmellata, quindi per le prossime colazione, su una fetta biscottata sarà deliziosa, oltre che sanissima.

Quando vorrete servire il dessert: preparate un piattino per ciascun ospite con una ciotola di frolla all'olio, un paio di cucchiai di gelato morbido e una cucchiaiata di sciroppo di amarena.

© ESSENZA IN CUCINA

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